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Lunedì, 10 Settembre 2018 12:03

Il ponte Morandi: una parabola attuale

Il 14 agosto, a Genova, il crollo del ponte Morandi, distruggendo vite e storie  di tante persone, in una manciata di secondi ha rovesciato negli occhi di tutti una catastrofe evocata dai testimoni con lo sgomento di qualcosa di annunciato e inatteso insieme. Le polemiche che inevitabilmente si sono da allora susseguite, nella ricerca di soluzioni al dramma degli sfollati e dell’intera città, e quindi anche nelle indagini per l’individuazione delle responsabilità e dei soggetti tenuti ai risarcimenti.

Ma nel video dei primi istanti del crollo ha colpito tutti il grido lanciato da colui che stava assistendo all’inimmaginabile: la voce umana non ha potuto che gridare, per quattro volte “Oh Dio!” e poi ancora “Oh Dio santo!” e, subito dopo, l’imprecazione contro una tragedia che così atrocemente feriva la comune umanità.

Alla santità di Dio fa appello, spontaneamente, la drammatica fragilità dell’uomo, l’ineluttabile limite creaturale che l’uomo sperimenta di fronte a ogni minaccia che aggredisce la propria insopprimibile fame di eternità. Ma quando la minaccia proviene dall’opera dell’ingegno umano, sono chiamati in causa l’errore e/o  la responsabilità di chi avrebbe potuto evitare quella tragedia:  e allora, di fronte alla santità di Dio con cui istintivamente ci interfacciamo, la nostra natura umana è costretta a fare i conti con le proprie aspirazioni ed esigenze e a come adoperiamo i talenti e le risorse che abbiamo a disposizione.

Col passare dei giorni e delle settimane, mentre la città dolorosamente cerca di riprendere il suo ritmo di vita quotidiana, vanno avanti le inchieste della magistratura, i provvedimenti dei pubblici amministratori, le polemiche della politica, le valutazioni e proposte degli esperti; si è addirittura evocata la tecnica romana della costruzione di ponti, con materiale non deperibile e utilizzando l’arco anziché l’architrave: strutture che hanno sfidato i secoli, con una longevità che solo eventi accidentali potevano annientare. Ma passata l’emotività del primo momento, che prospettava una “ricostruzione in 5/8 mesi”, ora si vanno definendo progetti più realistici: “ci vorrà un anno, ma sarà un ponte che durerà mille anni: perché i ponti non possono crollare, sono un simbolo che unisce e tiene assieme”, ha dichiarato Renzo Piano.

Sono in gioco, ancora una volta, le mille risorse dell’uomo, nelle complesse dinamiche delle capacità, collaborazioni, relazioni, ambizioni e interessi opposti o complementari. Siamo del resto tutti ben consapevoli che senza innovazione, senza i rischi che ne derivano, e senza gli innumerevoli crolli accaduti nella lunga storia dell'umanità, oggi non potremmo ammirare i grandi capolavori egiziani, romani, gotici, cinesi… Ma il progresso tecnologico attuale, necessario ai bisogni di un benessere diffuso, comporta anche la necessità di tener conto di fattori di rischio che non esistevano fino a due secoli fa: i fattori inquinanti e l’aumento del traffico pesante richiedono ovviamente continua innovazione e manutenzione, che non possono prescindere dalla responsabilità umana e non possono essere demandati ad algoritmi, e d'altra parte la velocità di funzionamento e di usura di strutture e strumentazione tecnologica hanno anche pesanti ricadute sulla fragilità fisica e psichica dell’essere umano.

Anche oggi quindi, e forse sempre di più per il futuro, la tecnologia avrà bisogno di un uomo capace di assolvere al suo compito di buon amministratore del creato. Ma nel momento drammatico del crollo del ponte Morandi, come di tante sciagure causate dall’incuria, dall'inefficenza o dalla colpa dell’uomo, mi tornano spesso in mente le parole del salmo 8, con cui l’autore si rivolgeva a Dio:
”Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi,
Il figlio dell’uomo perché te ne curi?
Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato.
Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi:
tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna;
gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare.
O Signore nostro Dio
quanto è grande il tuo nome su tutta la terra!” 

Ripensando a queste parole, sempre più mi accorgo che il salmista pensava al dominio dell’uomo sulla natura, intesa come opera di Dio: questo è il dominio che Dio accorda alla genialità dell’uomo, con fiducia; ma il dominio sulle opere delle proprie mani l’uomo deve conquistarlo con l’autonomia e la reponsabilità che gli sono affidate. Così un altro salmo, dopo aver constatato la precarietà dell’essere umano, conclude appellandosi a Dio:
“rendi salda per noi l'opera delle nostre mani,
l'opera delle nostre mani rendi salda” (Sal 90,17).
Pubblicato in IN DIALOGO

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