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Martedì, 07 Dicembre 2021 13:59

Per un Avvento senza utopie

Mentre luccicano ovunque, nelle strategie di marketing dispiegate per la necessaria ripartenza dei consumi, gli auguri per le “festività stagionali”, anche il Calendario dell’Avvento è in offerta con cioccolatini e altre attrazioni per bambini e per adulti con nostalgie della propria infanzia.

In un mondo che ha poche certezze, le speranze di “ripresa e resilienza” sono affidate alla competenza di politici, economisti, scienziati, e ancor più alla fatica di chi lavora o fa volontariato, cioè all’impegno “delle famiglie e delle imprese”. Ma sembra di doversi limitare a previsioni più o meno ottimistiche, continuamente alle prese con le varianti – sanitarie, geopolitiche, ecologiche, finanziarie – che mettono alla prova i bilanci delle famiglie come degli Stati.

Così anche l’Avvento cristiano – tempo liturgico che ripercorre il cammino di Dio verso l’uomo, all’interno della storia – sembra svuotarsi della percezione di un arrivo (“Ecco colui che prende su di sé il peccato del mondo”, Gv 1,29), e anche dalla percezione di una presenza ininterrotta nella nostra storia (“Io sono con voi tutti i giorni fino alla pienezza del tempo”, Mt 28,20).

Eppure, paradossalmente, gli improbabili camuffamenti di questo Avvento, proprio mentre riducono l’alacrità del cammino dell’uomo alla ricerca di Dio, possono ridare consapevolezza dell’iniziativa del cammino di Dio alla ricerca dell’uomo, come già evidenziava il filosofo ebreo Abraham Heschel.

I nostri interrogativi, le nostre attese, le nostre preghiere, non sono che risposte – per lo più goffe e inadeguate – a Colui che viene a cercarci e a condividere il nostro cammino.

E l’essenziale non è trovarLo, ma lasciarci trovare da Lui. Caterina da Siena coglieva il paradosso di un Dio che alla preghiera del cristiano –  “Signore, non sono degno che tu entri in me” –  risponde: “io però sono degno di entrare in te!” (Legenda maior, 192).

“Non ci sono risposte facili a problemi complessi – ha ricordato papa Francesco nel centro di accoglienza dei rifugiati a Mytilene –; c’è invece la necessità di accompagnare i processi dal di dentro”.

Dio ci prende sul serio. E se ce ne accorgiamo, la vita cambia.
Pubblicato in IN DIALOGO
Martedì, 25 Dicembre 2018 00:30

Natale: la fraternità da ritrovare

In mezzo ai tanti fuochi fatui del Natale commerciale, guardiamo oggi il Bambino di Betlemme, “immagine del Dio invisibile” (Col 1,15) apparso visibilmente più di duemila anni fa. E ci ricordiamo che ognuno di noi, ogni essere umano, dice la Bibbia, è creato ad immagine di Dio, per diventare a lui somigliante (Gen 1,26): prima che in tante dissertazioni filosofiche e dichiarazioni internazionali, la dignità e libertà dell’uomo è tutta espressa in queste poche parole della Genesi.

Colui di cui l’uomo pio non voleva farsi alcuna immagine, per non ridurre Dio a un idolo manipolabile, si è fatto immagine dell’uomo, ne ha condiviso la corporeità e il linguaggio. Così a sua volta Dio, fedele al suo disegno originario, ci ha “progettati conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli fosse il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29): e questo si realizza con la Pasqua del Signore, quando Gesù, dopo aver chiamato “amici” i suoi discepoli (Gv 15,15), dopo aver condiviso tutta intera la condizione umana, fino alla morte, può ormai chiamarli “fratelli” (Gv 20,17).

La fraternità umana nasce dunque da questa primogenitura, che ci fa scoprire la paternità divina in modo nuovo e reale: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo!” (1Gv 3,1). Se il greco Diogene cercava l’uomo, il cristiano ha trovato il fratello. Ma quando diventa orfano di Dio, l’uomo moderno sembra aver smarrito la nozione stessa della fraternità umana.

Essa è ancora menzionata nel primo articolo della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” (1948): “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (proemio). Dunque quella solenne Dichiarazione, quasi a voler esorcizzare le spaventose catastrofi della recente guerra mondiale, come primo passo nel cammino verso la realizzazione di quell’ “ideale comune” poneva un rassicurante richiamo alle conquiste del Secolo dei Lumi: libertà, uguaglianza, fraternità. Quasi che “la ragione e la coscienza” possano davvero indurre gli esseri umani ad agire in spirito di fraternità reciproca.

Il 70° anniversario di questa Dichiarazione è stato ricordato, il 10 dicembre scorso, come un punto di riferimento tuttora irrinunciabile, anche se sempre esposto a drammatiche violazioni e addirittura a negazione delle stesse enunciazioni di principio. D’altra parte il testo prevedeva fin dall’inizio un cammino irto di contraddizioni e incoerenze, raccomandando “di promuovere, con l'insegnamento e l'educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l'universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione”.

Due giorni dopo questo solenne anniversario, il 12 dicembre scorso, nella conferenza intergovernativa di Marrakech è stato approvato il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration: l’Italia si è astenuta, e lo ha fatto anche in sede di approvazione finale all’Assemblea generale dell’ONU il 19 dicembre, due giorni dopo l’approvazione del Global Compact on Refugees, dove invece l’Italia aveva dato voto favorevole. Questa distinzione tra le due categorie di persone in cerca di felicità (una ricerca che è diritto inalienabile di tutti gli uomini, secondo il preambolo della Costituzione americana) non corrisponde evidentemente a un’ottica cristiana.

Papa Francesco, all’Angelus del 16 dicembre, commentando l’esito della conferenza di Marrakech aveva espresso l’auspicio che la comunità internazionale “grazie anche a questo strumento, possa operare con responsabilità, solidarietà e compassione nei confronti di chi, per motivi diversi, ha lasciato il proprio Paese”, senza distinzione cioè fra migranti e rifugiati. Ma quale può essere la molla della “responsabilità, solidarietà e compassione” raccomandata dal Papa?

Una volta smarrita la nozione cristiana di una fraternità che unisce tutti gli esseri umani, la solidarietà e la compassione sono esposte alla precarietà: non solo quando i sentimenti sono soffocati da interessi ed egoismi individuali o collettivi, ma anche quando l’altro non è tale da suscitare tenerezza o simpatia, e farsene carico diventa un fardello pesante. “Portate i pesi gli uni degli altri” raccomandava, realisticamente, san Paolo ai Galati (6,2).

Quest’anno quindi il messaggio natalizio di papa Francesco è stato tutto incentrato sul tema della fraternità: “Dio è Padre buono e noi siamo tutti fratelli. Questa verità sta alla base della visione cristiana dell’umanità. Senza la fraternità che Gesù Cristo ci ha donato, i nostri sforzi per un mondo più giusto hanno il fiato corto, e anche i migliori progetti rischiano di diventare strutture senz’anima”.
Pubblicato in IN DIALOGO

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Chi siamo

L’“Unione S. Caterina da Siena delle Missionarie della Scuola” è una congregazione religiosa domenicana.
Siamo chiamate ad affiancare il cammino dei nostri contemporanei con lo studio e la preghiera e a cercare con loro le risposte evangeliche agli interrogativi di società complesse e multiculturali. 
Vogliamo perciò vivere in coerenza un cristianesimo di frontiera ed essere lievito e sale, che hanno poca visibilità ma fanno crescere e danno sapore.